La democrazia e la tirannia degli ignoranti

Résumé

This essay starts seeking the Greek word «demagogia» in ancient classical literature. At the beginning, the notion’s conceptual shifts are identified from Plato’s dialogues and from Aristophanes’ comedies: the first meaning of demagoguery is as a strategy of conquest and preservation of political power, which is very evident in democracy. Afterwards, the essay examines the following shades of meaning of the concept, with a focus on the transepochal validity of the characteristics —highlighted above all by Plato— which make the democratic system a particularly fertile ground for demagogic degeneration, far beyond the historical circumstances. After reflecting on Plato’s Republic and Polybius’ Histories, which identify demagoguery as a form of physiological transitional moment between democracy and tyranny, the essay focuses on the dynamic equilibrium between the demagogue and the demos, evident not only in Plato but also in Aristotle. This essay ends with the proposal to build, by extrapolation from classical literature, the ultimate meaning of demagoguery: a theoretical hypothesis of a form of demagogic government.

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Texte intégral

1. Introduzione

  • 1 Bobbio, 1999: 326. Sul governo democratico oggi universalmente accettato come la forma più desider (...)

1«Demagogia» è un termine in uso, con una certa banalizzazione di significato, nel linguaggio comune e nel dibatto pubblico in generale: si pensi alle reciproche accuse di demagogia tra avversari politici. Questo saggio persegue l’obiettivo di ridurre l’ambiguità della nozione di demagogia pervenendo a una sua ridefinizione esplicativa. L’analisi si esercita prevalentemente sui testi classici antichi, alla base di gran parte del lessico politico tuttora impiegato, nei quali questa nozione emerge e inizia a modellarsi. La figura della demagogia in letteratura appare quasi sempre, in maggiore o minor misura, connaturata alla democrazia, vocabolo usato dalla gran parte dei dotti antichi con valore assiologicamente negativo. Come spiega Bobbio, «oggi “democrazia” è un termine con connotazione fortemente positiva [...]. Al contrario nella tradizionale disputa sulla miglior forma di governo, la democrazia è stata quasi sempre collocata all’ultimo posto, proprio in ragione della sua natura di potere diretto del popolo o della massa, cui di solito sono stati attribuiti i peggiori vizi della licenziosità, della incontinenza, della ignoranza, della incompetenza, dell’insensatezza, della aggressività, della intolleranza»1.

  • 2 Bobbio, 1999: 380.

2Al di qua dei giudizi di valore, nella sostanza, —duemila e cinquecento anni dopo— il concetto di democrazia non è cambiato: è un sistema di norme che istituiscono l’eguaglianza politica, dunque un «insieme di regole che debbono servire a prendere le decisioni collettive, [...] che interessano tutta la collettività, col massimo di consenso e col minimo di violenza»2. Tra le definizioni di democrazia di Bobbio, si propone di adottare questa che, nel suo uso descrittivo, si adatta tanto alla democrazia diretta degli antichi quanto a quella rappresentativa dei moderni.

3Il saggio prende le mosse dalle occorrenze della nozione di demagogia nella letteratura classica antica per poi ricostruirne le diverse varianti di significato a partire dall’identificazione della demagogia con una specifica strategia politica, soprattutto in Platone e Aristofane. In seguito si prendono in esame gli slittamenti intermedi di significato della nozione, in Platone e Aristotele là dove considerano il regime democratico un terreno fertile per la degenerazione demagogica. Dopo aver riflettuto sulla filosofia della storia della Repubblica —ripresa in parte da Polibio, che individua la demagogia come una forma di governo di passaggio, fisiologico e «obbligato», dalla democrazia alla tirannide— si richiama l’attenzione sull’equilibrio dinamico che si viene a creare nel rapporto di potere tra il demagogo e il demos. Il saggio si conclude con la proposta di costruire, per estrapolazione dalla letteratura classica, l’ipotesi teorica di una forma di governo distinta e autonoma, propriamente demagogica.

2. Le principali occorrenze classiche

  • 3 Cfr. Liddell, Scott e Jones, 1996.
  • 4 Bobbio, 1995: 5-6.

4Per comprendere la complessità dell’insieme dei fenomeni che ruotano intorno alle nozioni di «demagogo» e «demagogia», è necessario partire dall’analisi dei termini riconducibili al loro ceppo linguistico, costruiti sulla base della confluenza di due diverse famiglie di vocaboli. La prima è quella di demos, nome collettivo che significa genericamente «popolazione», ma con diverse dimensioni semantiche, che emergono alternativamente come prevalenti a seconda dei contesti. In origine, demos è l’insieme delle persone che convivono in un luogo costituendone la popolazione; con Solone il demos da semplice «abitato» diventa poi un’entità amministrativa locale. Tuttavia il lemma indica anche gli abitanti del demo agricolo, in opposizione a quelli dell’asty3, il nucleo urbano. Demos è rintracciabile come elemento di circa quaranta termini composti, i più rilevanti dei quali si riferiscono a fenomeni politici. L’uso di questa nozione diventa politico, infatti, quando riguarda il popolo nel suo divenire un soggetto cui è imputabile una volontà unitaria, quella pubblica. In questa dimensione semantica, demos si presta a indicare la totalità del corpo civico come soggetto politico della volontà collettiva. Però, come osserva Bobbio, «“popolo” è una parola ingannevole, che si presta a un uso frequentemente retorico [...] oltre a essere descrittivamente vago, è anche emotivamente ambiguo. Può essere usato tanto con un significato valutativo positivo [...] quanto con un significato valutativo negativo, come quando un oligarca dice: “Non bisogna fidarsi del popolo”»4. Nell’orizzonte del discorso politico, con demos si può intendere sia l’intera comunità dei cittadini, sia la sua parte più povera. Una seconda dimensione dei significati politici di demos indica, dunque, il popolo «basso»: non l’insieme dei cittadini; bensì una frazione della popolazione. Nel primo significato di «popolazione» o «cittadinanza», il demos risulta così articolato nei «pochi» e nei «molti»: e i molti, la moltitudine dei poveri in opposizione ai cittadini ricchi e influenti, sono anch’essi qualificati come demos nel secondo significato politico fondamentale.

5La seconda parte del composto deriva da ago verbo che, con il latino agere, viene fatto derivare dall’ipotetico radicale indoeuropeo *a2eg-, che significa «spingere» o «tirare», idee speculari e opposte, in origine, che diventeranno equivalenti con la maturazione della nozione. diventerà predominante l’idea della conduzione, indipendentemente dalla «posizione» del soggetto attivo rispetto a quello passivo. In origine, il verbo ago veniva usato nel linguaggio agreste e indicava il condurre al pascolo il bestiame. Più tardi il lemma viene adoperato anche per indicare relazioni umane, prima con riferimento a soggetti dall’autonomia limitata oppure nulla, come schiavi o prigionieri, successivamente nel linguaggio militare.

  • 5 Cfr. Isocr., 2. 16, 10. 37, 18, 215.

6Analizzando gli usi dei lemmi della famiglia di demagogia nella letteratura del quinto secolo, pare che essi nascano prevalentemente come adiafori. In Isocrate, ad esempio, si trovano occorrenze con accezione neutra o positiva del verbo demagogeo5, che in queste orazioni viene a significare «governare democraticamente».

  • 6 Cfr. Ar., Eq., v. 944. Sull’opera di Aristofane cfr. i sempre classici Ehrenberg, 1957 e Dover, 19 (...)
  • 7 Personificato in Demo, il popolo protesta di non essere sprovveduto, bensì di comprendere ciò che (...)
  • 8 Ar., Eq., vv. 191-193.
  • 9 Connor, 1971: 144.
  • 10 Lys., XXVII.
  • 11 X., HG, II, 3. 27.
  • 12 X., HG, II, 3. 25. Il lemma neutro demagogos spesso si carica dei significati negativi di altre es (...)

7Un passo dei Cavalieri di Aristofane testimonia la transizione di demagogia e demagogos verso una connotazione tutt’altro che avalutativa. La scena della commedia è la dimora di Demo di Pnice, personificazione del popolo «basso» riunito in assemblea6 (il demotico si riferisce, appunto, alla collina della Pnice, sede delle riunioni dell’ekklesia): egli è un piccolo proprietario, il padrone della «casa» pubblica, della polis. Demo è un uomo ignorante e, apparentemente7, sensibile alle lusinghe dei suoi schiavi. Due tra questi intendono spodestarne un terzo, Paflagone —dietro la cui maschera si cela Cleone— poiché, conquistato il favore del despotes, ha iniziato a comportarsi come se fosse lui il padrone di casa. I servi incitano un venditore ambulante di salsicce, Agoracrito, a sostituirsi a Paflagone nel «fare politica». Per vincerne il timore d’inadeguatezza, essi rassicurano il salsicciaio affermando che, ormai, la demagogia non è più nelle mani dei colti e delle persone per bene, ma è un’attività adatta a «ignoranti e spudorati»8. Nelle parole del servo, la demagogia non è di per sé portatrice di disvalore: indica una forma di politica le cui connotazioni dipendono dalla classe dirigente che la pratica. Il vocabolo comincia ad assumere una denotazione diversa proprio in questo periodo, durante la guerra del Peloponneso, caricandosi dei significati negativi attribuiti al ceto politico allora che inizia a imporsi in Atene. In quegli anni, secondo Connor9 il modo di fare politica si rinnova, a causa della professionalizzazione, divenuta necessaria per via della crescente portata dei problemi della città, guida di una grande lega di poleis. In questa fase della vita di Atene, prendere parola nelle assemblee politiche richiede gradi elevati di abilità oratoria, le cui tecniche sono insegnate a pagamento dai sofisti: solo i più ricchi possono permettersi di pagare questi professionisti. Dopo la morte di Pericle, gli esponenti dell’emergente classe imprenditoriale, i nuovi ricchi, aspirano ad avere un ruolo eminente nella conduzione della polis: dunque, i nuovi politici non provengono più da famiglie di discendenza illustre, come nel periodo precedente. Esempio paradigmatico della nuova classe politica è proprio Cleone, proprietario di una conceria, contro cui si scaglia Aristofane, rimpiangendo le virtù dell’antica kalokagathia. Nel nuovo contesto, i «partigiani» della democrazia continuano ad adoperare il termine come sinonimo di retore o di capo popolare: ad esempio, nella sua orazione ControEpicrate, Lisia si riferisce al «dovere di un buon demagogos»10. Tra i detrattori del regime democratico lo stesso vocabolo inizia, invece, ad assumere una connotazione negativa. Un’attestazione di demagogoi in senso spregiativo si trova nelle Elleniche di Senofonte, dove Crizia parla di Teramene il «coturno». All’antidemocratico Crizia è attribuita l’affermazione: «nessuno più di questo Teramene critica la situazione presente o fa opposizione tutte le volte che vogliamo liberarci di qualche demagogo»11. Quest’occorrenza è significativa poiché la vicenda narrata risale al 404 e, parlando in nome dei Trenta tiranni, Crizia viene dall’affermare come «la democrazia sia [...] un regime odioso»12.

8Nella lingua classica, occorrenze tra le più interessanti delle figure della demagogia e del demagogo sono nell’opera politica platonica. Il filosofo insiste sul legame intrinseco, a suo modo di vedere inevitabile, tra democrazia e demagogia, ritenendo che la democrazia sia necessariamente destinata a degenerare in un regime autocratico, proprio attraverso la demagogia. Tale destino sarebbe connaturato alla democrazia stessa per ragioni sia strutturali e istituzionali, sia di carattere antropologico e sociale.

  • 13 Il primo significato di demegoria è «discorso in assemblea», così come nella Retorica di Aristotel (...)
  • 14 Nel Gorgia soprattutto (cfr. Pl., Grg., 482c, 482e, 494d, 502c, 519d, 520b) ma anche in altri luog (...)
  • 15 Pl., Prt., 336b.
  • 16 Pl., Lg., 908d. Sulle Leggi cfr. Il sempre classico Morrow, 1960.

9Tuttavia, nelle sue opere politiche Platone non usa termini del ceppo di demagogia, ricorre piuttosto ai vocaboli demegoros e demegoria. La famiglia è quella di demegoreo, un’altra vox media, che significa «parlare in assemblea»13. È sintomatico che il termine usato per designare l’orazione politica acquisisca, in Platone soprattutto, una connotazione spregiativa, come a indicare che nel contesto democratico il discorso politico stesso è intrinsecamente demagogico. I termini della famiglia di demegoreo tornano spesso nell’opera politica platonica14, quasi sempre con la particolare accezione negativa di «arringare la folla», «parlare in pubblico con discorsi lunghi, retorici e altisonanti», «accattivarsi il popolo attraverso i discorsi». In questi casi il vocabolo demegoria è generalmente tradotto nelle lingue romanze con i termini del ceppo di demagogia. Nel Protagora, ad esempio, Socrate biasima to demegorein15, l’oratoria, del celebre sofista; fastidiosa al punto tale da indurlo ad abbandonare la discussione e accennare ad andarsene. Ancora, nel decimo libro delle Leggi, enumerando le cause dell’empietà e classificando i diversi tipi di empi, Platone spiega che una delle sei categorie è composta da indovini, maghi, tiranni e demegoroi16. Accostato alle altre categorie menzionate, il sostantivo assume qui valenza assiologicamente negativa: la persuasione retorica del demegoros equivale all’inganno dell’indovino ciarlatano.

3. Una strategia politica

  • 17 Pl., Grg., 492a.
  • 18 Pl., Grg., 513a.

10Non è perfettamente «biunivoco» il nesso tra democrazia e demagogia perché quest’ultima categoria, battezzata col nome di una modo d’azione («trascinare» il demos), è connessa non solo alla democrazia ma a tutte le sottospecie di regimi in cui il «popolo» assume un qualche ruolo rilevante. Tuttavia, in Platone demagogia e democrazia sono fenomeni «contigui» e così strettamente connessi da sembrare talvolta indistinguibili. Una tra le opere di Platone dove la strategia demagogica si trova legata alla democrazia in maniera particolarmente evidente è il Gorgia, dialogo che si svolge ad Atene durante l’età del trionfo della retorica, una tecnica che si può assumere come fondamentale per lo stile politico demagogico. Ambientando l’opera nel periodo di prima diffusione dell’oratoria nell’Atene democratica, il filosofo mostra gli effetti del sopravvento di quest’arte, osservati nel tempo in cui scrive: la retorica ha un’influenza decisiva sull’accesso al potere in un contesto democratico e può comportare non pochi problemi. Per comprendere le argomentazioni del Gorgia è necessario riflettere sulle specifiche concezioni della politica degli interlocutori. Se per Socrate la politica dev’essere volta al miglioramento etico dei cittadini e, conseguentemente, il compito del politico dev’essere costringerli a diventare persone migliori, secondo Callicle, invece, è giusto per natura che il politico astuto si serva del potere per «dare sempre piena soddisfazione»17 ai propri desideri. Socrate afferma che per ottenere successo in politica Callicle deve necessariamente «uniformarsi» quanto più è possibile alla costituzione della polis, in questo caso al regime democratico: «[n]on basta voler imitare, ma essere uguali per natura, se desideri procurarti un vero e sincero rapporto di amicizia con il demo ateniese»18.

  • 19 Pl., Grg., 489d.

11Si potrebbe poi osservare che tentare di «sintonizzarsi» con i concittadini è necessario per riuscire a comunicare in modo efficace, pertanto non è una pratica demagogica di per sé. Tuttavia, per Platone, il sistema democratico in particolare invita a servirsi di questo tipo espedienti, in ragione del «peso» che ha la cittadinanza in questa forma di regime. Socrate afferma dunque che in democrazia al politico è indispensabile diventare veramente «uno del popolo», per rendere la moltitudine disposta a seguirlo. Oppure si potrebbe obiettare che —attraverso la retorica di taglio demagogico— occorre persuadere le folle di essere «uno del popolo», piuttosto che diventarlo: come sostiene Callicle, un oratore deve apparire simile all’«accozzaglia di servi e di uomini di ogni genere e senza alcun valore»19 che compongono la massa,se vuole ottenerne il sostegno. In questa prospettiva, gli oratori appaiono come astuti e smaliziati «venditori» di se stessi, che raggirano i concittadini mostrandosi come il pubblico desidera vederli. Talvolta come «uno di loro», talvolta come una guida dalle capacità straordinarie.

  • 20 Cfr. Th, III, 37-40.
  • 21 Su Tucidide cfr. il recentissimo Canfora, 2016.

12L’esperienza storica dimostra che il demagogo può decidere di usare differenti registri. Da un lato, può mostrarsi come uno del popolo e domandare fiducia alle masse in virtù di questa somiglianza; dall’altro lato, può decidere di presentarsi come un individuo qualitativamente superiore —più competente, saggio, un uomo della provvidenza— e in ragione di ciò, invitare le masse di fidarsi di lui. A seconda delle circostanze, chi voglia sedurre la massa popolare si trova davanti a una scelta: presentarsi come una persona qualsiasi, oppure come un uomo dalle qualità superiori. Quest’ultima è la strategia scelta da Cleone nel discorso su Mitilene20 che leggiamo nella Guerradel Peloponneso. Così come Aristofane, nella sua opera anche Tucidide descrive Cleone come una persona spregevole, un pessimo stratego e un oratore dai modi sguaiati21: da allora Cleone diventa esempio paradigmatico del demagogo.

13A dimostrazione del fatto che la strategia demagogica non si basa unicamente sull’adulare o l’assecondare delle masse, è significativo che in questo passo tucidideoCleone rimproveri i concittadini per la volubilità con cui si lasciano persuadere e, accusandoli di comportarsi in assemblea come se stessero assistendo a rappresentazioni teatrali, prometta salvezza se gli si darà ascolto. Qui il demagogo s’indirizza ai concittadini con la seconda persona plurale, anziché con il «noi» caratteristico delle orazioni dal taglio adulatorio. Alla base della struttura di questo discorso vi è l’implicita dicotomia «io/voi», usata per sottolineare la differenza di valore tra la sua persona e gli Ateniesi, ai quali si rivolge con un severo tono parenetico e moraleggiante. A seconda delle circostanze, il demagogo può dunque dare opposte immagini di se stesso, anche a dispetto della coerenza. Se e è particolarmente abile, può anche riuscire a «tenere insieme» i due aspetti in una medesima narrazione: l’incoerenza del discorso, infatti, non ne pregiudica l’effetto.

  • 22 Pl., Grg., 481d. Espressioni di questo tipo erano comuni nel linguaggio corrente: nel quinto secol (...)
  • 23 Pl., Grg., 481d-e.

14Nel Gorgia, Socrate sostiene che il suo interlocutore sia innamorato del demos ateniese: «[t]u ed io proviamo ora il medesimo affetto, innamorati, come siamo, ciascuno di due oggetti [...], tu del demo ateniese e di Demo figlio di Pirilampo»22. Socrate afferma, dunque, che Callicle non riesce a resistere a ciò che gli comanda l’oggetto del suo amore: se l’assemblea dovesse dargli torto dopo un suo discorso, egli cambierebbe subito opinione rivolgendo al demos ateniese le parole che vuole sentirsi dire. Secondo il filosofo, avendo i suoi discorsi l’unico scopo di compiacere l’ekklesia, di volta in volta Callicle sarebbe disposto a negare con disinvoltura quanto affermato nelle orazioni precedenti: «[i]n ogni circostanza ho la sensazione che tu [...] qualunque cosa dica, qualunque cosa sostenga l’oggetto del tuo amore, non sei capace di opporti, ma ti lasci cambiare da cima a fondo. Nell’assemblea popolare, se, dopo il tuo discorso, il demo ateniese ti dà torto, tu cambi sùbito parere e dici quello che esso vuole»23.

15Platone rileva un comportamento adattivo del demagogo alle reazioni dell’assemblea: prima facie, il baricentro del rapporto tra retore e demos sembra stare nelle reazioni del popolo, piuttosto che nei discorsi dell’oratore. Tuttavia, Socrate non sembra prendere sul serio una precisa strategia, che consente al politico di manovrare le masse portandole a rivendicare ciò che egli vuole indurle a domandare: si tratta di una tecnica che si potrebbe chiamare del ballond’essai, in base alla quale il demagogo saggia l’opinione pubblica cercando d’individuare il modo di ottenere reazioni positive e, quando gli è utile, torna sui propri passi smentendo le affermazioni precedenti. Gli oratori come Callicle «sondano», dunque, il sentire della massa, puntano al gradimento dei molti, si adattano quando conviene loro, cercando di anticipare l’evolversi delle inclinazioni popolari.

3.1 Oltre alle parole

  • 24 Pl., Grg., 519a.
  • 25 Pl., Grg., 521b.

16Inoltre, nel Gorgia la demagogia emerge come una pratica politica che non si risolve nel tentativo di attirarsi il favore popolare con i discorsi. Callicle afferma, infatti, che per conquistare e mantenere il potere è necessario tanto esercitare la retorica nei confronti del demos, quanto «adescare» i governati attraverso la concessione di favori materiali: due modi di comportarsi del demagogo, distinti ma pressoché sempre associati nella prassi. Il giovane retore porta ad esempio Cimone, Milziade, Temistocle e Pericle che, a suo avviso, seppero dare ad Atene molto di più rispetto ai politici attivi al momento del dialogo. Socrate ammette che questi uomini del passato servirono la comunità meglio dei politici contemporanei, «saziando» gli Ateniesi con tutto ciò che questi potevano desiderare: concedendo loro la misthophoria, «gonfiando» la città di opere pubbliche e di «un’infinità di simili sciocchezze»24. Essi hanno soddisfatto la comunità cittadina come quei pasticcieri che appagano i desideri dei loro clienti, ma danneggiando la loro salute. Non diversamente da quello di un cuoco o di un pasticciere, infatti, il «sapere» di questi politici consiste nella capacità di saggiare i gusti delle masse, d’intuirne i desideri e di soddisfarli per trarne vantaggio. Per Callicle, dunque, in questo senso il politico deve, con atteggiamento interessato, «farsi servo»25 del cittadino: dapprima deve intuire, poi plasmare e infine assecondare la volontà dei concittadini, ma non perché ne sia innamorato. Lo fa se e quando lo ritiene conveniente per il proprio utile. L’analisi evidenzia la tendenza dei governati a farsi viziare, e quella speculare dei demagoghi ad approfittarne a proprio vantaggio. In democrazia questa dinamica sarebbe fisiologica, poiché in un regime di questo genere non si può prescindere dalle inclinazioni dell’insieme dei cittadini, e il demagogo è colui che riesce a usare la democrazia stessa come uno strumento per i suoi scopi.

  • 26 In merito cfr. Canfora, 2014.
  • 27 Ar., Eq., vv. 351-352.
  • 28 Si vanta di aver acquistato tutte le spezie per le acciughe disponibili sul mercato, per poi ridis (...)

17In ogni epoca, la satira non si risolve solo in un certo tipo d’intrattenimento, ma costituisce una forma di critica politica, talvolta assai penetrante ed efficace: è il caso di Aristofane. Il rapporto tra il commediografo e Platone è complesso: pur ideologicamente distanti e in polemica tra loro, spesso le rispettive rappresentazioni della realtà convergono26. Aristofane denuncia apertamente l’abilità capziosa dei politici nell’attirare e trascinare le masse, concedendo loro quel che credono di desiderare. I Cavalieri è la commedia emblematica in cui Aristofane denuncia la degenerazione, pressoché inevitabile, della democrazia nella più spudorata demagogia. Qui il commediografo critica severamente i politici che si fanno largo sulla scena ateniese nel periodo della guerra del Peloponneso. Così come appare nel Gorgia, i demagoghi si fingono innamorati del popolo, di cui diventano servi per meglio «abbindolarlo»; nei Cavalieri, Paflagone è accusato di rendere inerme la polis, manipolando il demos, e quindi i poteri democratici. «Tu [...] hai ottenuto che la Città sia ridotta al silenzio dalla tua sola lingua»27: Paflagone con la sua verbosità demagogica riesce a zittire, quindi esautorare, l’assemblea. Il suo avversario Agoracrito esaudisce i desideri che ha fatto in modo di suscitare nell’uditorio28.

  • 29 Ar., Eq., vv. 40-43.
  • 30 Cfr. Ar., Eq., vv. 730-969.
  • 31 Ar., V., vv. 663-717.
  • 32 Cfr. infra § 6.

18La prospettiva di Aristofane non consegue da una posizione antidemocratica come quella di Platone. Ciò nonostante il commediografo, oltre a mettere in caricatura le figure pubbliche e i tipi umani che abitano la democrazia, evidenzia le problematicità del regime. Demo è «un padrone, zotico, [...] irascibile, [...] un vecchietto bilioso, mezzo sordo»29: è sprovveduto e quindi incline a lasciarsi persuadere dalle lusinghe dei suoi servi i quali, appunto, lo assordano con le loro chiacchiere. È emblematica la scena dell’«agone demagogico» dove Paflagone e Agoracrito si dichiarano entrambi galantuomini e spasimanti di Demo, affermando di essere gli unici ad avere a cuore il bene del loro padrone30. Tutti e due elencano i «servizi» fatti al popolo, tra cui gli espropri ai ricchi e la misthophoria, concessioni ridimensionate dalle parole dell’avversario. In questa concitata gara per suscitare l’adesione di Demo, ciascuno dei due demagoghi promette —senza alcun ritegno e in un surreale crescendo in volgarità— di offrire sempre di più, qualcosa di meglio. Impegni difficilmente realizzabili. Come in Platone, essere devoto, voler bene, al demos si traduce qui, in un equazione quasi perfetta, in «servire» i concittadini attraverso la promessa di concessioni varie. Entrambi gli «spasimanti» di Demo si accusano vicendevolmente di essere solo parolai, di tramare contro i più deboli, di fingere di amare Atene solo per il proprio interesse. Ad esempio, Aristofane critica —come farà nuovamente nel monologo di Bdelicleone delle Vespe31l’uso del denaro pubblico, osservando che solo una minima parte delle entrate viene ridistribuita, la restante rimane ai politici, che considera una «casta» di giovani «bottegai». Agoracrito accusa Paflagone di voler adescare il popolo con le briciole di ciò che ha sottratto ai ricchi ed estorto agli alleati, e sostiene che il suo avversario non è null’altro se non un volgare mercante: il poeta vuole mostrare forse, come la democrazia rischia di degenerare proprio quando il luogo della collettività torna, figuratamente, a essere una piazza del mercato. Non è possibile non riscontrare che questa rappresentazione sembra del tutto speculare a quella di Platone nell’ottavo libro della Repubblica32 e del Gorgia.

  • 33 Ar., Eq., vv. 940-950.

19Aristofane ci mostra che può esserci un modo migliore per fare politica in democrazia e Platone evidenzia che la democrazia è un tipo di regime in cui si può privare di autorità il sistema stesso. «Sappi che se non permetterai che io mi prenda cura di te, comparirà un altro più farabutto di me»33, è il profetico anatema che Paflagone, ormai perduto, lancia a Demo.

4. Ombra perenne della democrazia

20In altri luoghi dell’opera di Platone, sono messe in evidenza le cause istituzionali e antropologiche che rendono la degenerazione demagogica strettamente connaturata ai regimi democratici. Le basi sulle quali il demagogo riesce a «esautorare» la democrazia sono radicate nella forma democratica stessa e nel suo ethos.

  • 34 Per approfondire la nozione d’isonomia cfr. Bovero, 2000: 7-25 e Hansen, 2003: 126 e seguenti.
  • 35 Ps.-X., Ath., I, 1.
  • 36 Su isegoria e parrhesia cfr. Foucault, 2005 e Spina, 1986.
  • 37 Pl. R., 557b.
  • 38 Pl. R., 563b.
  • 39 Pl. R., 560e-561a.
  • 40 Corsivo mio. Pl. R., 562d.

21Tra i fattori istituzionali della deriva demagogica, Platone annovera i principi stessi della demagogia: l’isonomia e l’eleutheria. Isonomia è un termine compostoda ison, «eguale», e nomos, «legge»34. Letteralmente significa dunque «eguaglianza di legge»: una determinata eguaglianza, specificamente politica, stabilita mediante il nomos. Gliantidemocraticicome Platone vedono nell’isonomia una pericolosa finzione, una «maschera» ideologica. Nella prospettiva antidemocratica, le «regole del gioco» isonomiche —in base alle quali tutti i cittadini sono egualmente titolari dei diritti di partecipazione politica— sono quelle che permettono al popolo d’imporre i propri capricci nell’esercizio del potere politico, e al demagogo d’imporsi su di esso: «[a] me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta alla canaglia di star meglio della gente per bene»35, sostiene il «vecchio oligarca» pseudo-senofonteo. L’isonomia è il fondamento normativo dell’isegoria: il termine è costruito sulla radice di agoreuo —la medesima di agora—, che significa per un verso «arringare», «persuadere», e per l’altro il «dichiarare», l’«informare», il «parlare a molti perché tutti sappiano». Isegoria indica il diritto-potere che contraddistingue la piena cittadinanza in un regime di democrazia diretta, dove ogni cittadino è autorizzato al pari di ogni altro a parlare davanti all’assemblea. L’isegoria fonda, a sua volta, la possibilità della parrhesia36, ovvero la facoltà per tutti i cittadini di esprimere la propria opinione in maniera schietta, franca e senza remore. Nella prospettiva antidemocratica, la parrhesia assume un connotato negativo: viene inteso come uno sconfinamento dell’isegoria in impudenza, in libertà arrogante e inopportuna. La parrhesia democratica è assimilata da Platone al phlyarein, «dire sciocchezze», «parlare a vuoto»: è una forma di sfrontatezza, mancanza di rispetto per l’interlocutore. L’isegoria stessa si configura, per Platone, come libertà di parlare impunemente superando i vincoli del ritegno ed è pericolosa proprio in quanto apre le porte alla demagogia. Ma la negatività del sistema democratico, secondo Platone, risiede nel suo principio fondamentale: l’eleutheria. La libertà democratica si risolve nell’istituzione di un sistema di vita privo di vicoli normativi:«[n]on sono liberi [gli uomini in democrazia], e la città non diventa piena di libertà (eleutheria) di azione e di parola (parrhesia)? E non vi è piena licenza (exousia) di fare ciò che si vuole?»37. L’eleutheria tou pletous, «libertà di massa»38 conduce all’inversione di tutti i valori: in democrazia «chiamano l’arroganza “buona educazione”, l’anarchia (anarchia) “libertà” (eleutheria), la dissolutezza “magnanimità”, l’impudenza “coraggio”»39. Allorché la libertàsi trasforma in anarchica exousia, si manifesta il pericolo demagogico: «[q]uando [...] una città democratica, assetata di libertà, viene a trovarsi sotto la guida di cattivi coppieri e si ubriaca bevendo libertà pura ben oltre il dovuto [...] loda e onora [...] i governanti che sono simili ai sudditi e i sudditi che sono simili ai governanti. Non è allora inevitabile che in una simile città il principio di libertà si estenda a tutti?»40. Platone descrive la società democratica come negazione di ogni ordine: gli stranieri si equiparano ai cittadini e le donne agli uomini, i genitori temono i figli e i maestri gli allievi, i ragazzi non rispettano gli adulti, gli anziani s’imbellettano per compiacere i giovani e perfino gli animali domestici sono contagiati dalla sregolatezza della città.

  • 41 Pl., R., 561e.
  • 42 L’epithymetikon è la componente, pulsionale e più grande dell’anima (cfr. Pl., R., 442a), «con cui (...)
  • 43 Pl., R., 561d.
  • 44 Pl., R., 561a.

22Le non-regole della democrazia rispecchiano la natura dell’uomo democratico: il tipo umano che vi prevale è l’«uomo isonomico»41. L’anerdemokratikos non distingue i bisogni necessari dai piaceri superflui. È governato dall’epithymetikon, la sua anima «pulsionale»42, ma nessun desiderio in particolare prevale sugli altri. Attribuisce, quindi, pari valore alle sue voglie, ponendole tutte sullo stesso piano. L’uomo isonomico stabilisce, insomma, una sorta di eguaglianza tra i suoi desideri, concedendo loro di «governare» su se stesso a turno, in modo casuale, quasi questi fossero sorteggiati e destinati a rotazione come lo sono molte cariche pubbliche dell’Atene democratica. L’uomo democratico un giorno si ubriaca ascoltando musica, quello successivo si mette a dieta; una volta si ritrova a essere pigro e svogliato, altre volte è sportivo; si dedica talvolta alla filosofia e talora alla politica, salendo «alla tribuna parlando e agendo a casaccio»43; tenta di emulare ora gli uomini d’affari ora quelli dediti alla guerra. Per tutta la sua esistenza, disperde «denaro, sforzi e tempo»44 nelle più diverse attività. Per di più, lo spudorato uomo democratico non prova vergogna del suo modo di comportarsi.

  • 45 Pl., Lg., 659b.
  • 46 Pl., Lg., 659b-c.
  • 47 Pl., Lg., 701a.
  • 48 Pl., Lg., 701a.

23Nella cornice categoriale della teoria politica platonica, la democrazia viene a coincidere con la pratica stessa della demagogia. Il tema della critica della democrazia come regime in cui prevale «chi grida più forte» ritorna anche nella sua ultima opera, le Leggi. Qui il filosofo riferisce di una «legge siciliana e italica»45 sul teatro che renderebbe sovrane le «mani alzate» degli spettatori votanti, generando una serie di effetti perversi. In questo caso, il teatro perde la sua funzione educativa: adattandosi alle preferenze degli spettatori, gli autori stessi giungono a comporre «per il basso piacere» del plethos46; in questo modo si corrompe il gusto degli spettatori. Il confronto con il teatro ritorna con frequenza in Platone: è celebre la pagina di critica antidemocratica dove campeggia l’idea di theatrokratia. La democrazia è, per il filosofo, un regime in cui chiunque si sente autorizzato a «dire la propria» e a giudicare anche quando non è competente, come accade a teatro. L’ateniese, l’interlocutore principale del dialogo, narra che anticamente il demos della sua città si sottoponeva di buon grado alle norme, e alcune tra queste disciplinavano la musica. Quest’arte era divisa in generi, fissati i quali era da considerarsi trasgressiva la scelta di un tipo di melodia in luogo di un altro. Solo ai competenti spettava giudicare un’esecuzione musicale, mentre la gran massa degli Ateniesi rimaneva in rispettoso silenzio, ben disposta a lasciarsi guidare dagli esperti: l’Atene degli albori era un’«aristocrazia del gusto»47. Con il trascorrere del tempo, mirando al gradimento della moltitudine, i poeti stessi iniziarono a trasgredire gli antichi usi, mescolando generi diversi lasciandosi trasportare dall’hedone, come se fossero ebbre baccanti. Facendo leva sugli umori mutevoli degli spettatori, essi sostenevano che la musica non dovesse rispondere ad alcun canone e che il piacere, il piacere del pubblico, quello di chiunque, dovesse essere l’unico criterio per valutare una melodia. Legittimarono, così, anche gli incompetenti a giudicare la musica, ingenerando in loro una sorta di presunzione di saggezza e, ancor più grave, abituarono i cittadini a considerare normale la trasgressione delle regole. Si giunge in questo modo alla teatrocrazia: il potere sovrano è nelle mani dei vocianti spettatori inesperti, che valutano l’esecuzione musicale con arroganza, fischiando o applaudendo rumorosamente. L’estrema deviazione si ha quando questa «presunzione secondo cui tutti sanno tutto»48 non rimane più circoscritta al campo artistico e culturale, ma si estende a ogni settore, e la trasgressione delle norme si fa dilagante, travolgendo i principi giuridici e morali. Platone sottolinea come, lasciate «libere» e amplificate dalle procedure democratiche, la disposizione umana al lasciarsi «corteggiare» e quella speculare dei «cattivi coppieri» ad approfittarne guardando il proprio tornaconto renderebbero dunque la democrazia particolarmente sensibile al rischio di derive demagogiche.

5. Verso la tirannide

24La «questione demagogica» non riguarda solo lo stile politico, dai testi classici emerge anche come qualcosa di più e di diverso da una forma dell’agire politico; essa ha anche a che fare, infatti, con l’equilibrio dei poteri, la «forma di governo». In quest’accezione, la demagogia è una degenerazione della democrazia.

  • 49 Hegemon deriva dal verbo hegeomai che significa «camminare davanti», «essere in testa» e si traduc (...)
  • 50 Pl., R., 566d-e.

25Nell’ottavo libro della Repubblica, la comparsa del demagogo prepara la trasformazione della democrazia nel dominio di chi si proclama guida e difensore del popolo. In questo testo, il filosofo divide la polis democratica in tre gruppi sociali: il primo è quello che governa, il secondo è costituito dai ricchi e la terza parte è il demos. Si osservi che in questo contesto demos non indica il corpo civico nella sua interezza ma una sua frazione: in opposizione ai ricchi, Platone si riferisce alla parte della cittadinanza più numerosa e modesta. Il gruppo di governo tenta costantemente di porre le altre due componenti l’una contro l’altra, accusando i ricchi di tramare per rovesciare la democrazia. In questa situazione, un prostates «attizza» il conflitto sociale, schierandosi a favore dei poveri e cercando riconoscimento del suo ruolo di philodemos. Sentendosi minacciato dalle presunte trame oligarchiche, il demos sperimenta il bisogno di essere protetto da un hegemon49 e affida i pieni poteri al prostates, permettendo, così, che si compia la mutazione di quest’ultimo in tiranno. Poiché ogni eccesso produce una metabole nel senso opposto, l’exousia insensata del demos è destinata a trasformarsi in schiavitù. L’aner demokratikos s’illude di vivere liberamente, ma è già schiavo dei suoi stessi capricci; e la schiavitù è l’esito della trasformazione estrema, che muta la libertà democratica in sottomissione alla tirannia. Nella prospettiva platonica, il modo in cui si presenta il prostates è un passaggio inevitabile che porta la democrazia a degenerare in tirannide, riducendo i cittadini alla condizione di schiavi. I comportamenti «demagogici» del prostates persistono anche nei primissimi tempi della tirannia, quando il tyrannos deve consolidare la sua posizione: «nell’arco di tempo dei primi giorni, non sorride e non saluta con affetto chiunque incontri, non nega di essere un tiranno e non fa molte promesse, in privato e in pubblico? E disposta la liberazione dai debiti e la distribuzione di terra al popolo e a quelli che gli sono vicini, non si atteggia a benevolo e mite nei riguardi di tutti?»50. Una volta consolidata, la tirannide si manterrà con l’uso della forza e il tiranno avrà bisogno del solo consenso di un gruppo fidato più ristretto, non più del favore popolare come richiesto dalla democrazia. Nella Repubblica, la critica alla democrazia assume, dunque, tratti inquietanti: quando la retorica non è sufficiente, i demagoghi tentano di cambiare le «regole del gioco» democratico, che stabiliscono quali sono i soggetti autorizzati a prendere le decisioni collettive, e attraverso quali procedure devono giungervi. L’esito per la collettività è scontato: nella filosofia della storia dell’ottavo libro della Repubblica il momento demagogico appare come la forma della transizione dalla democrazia alla tirannide, pertanto si presenta come una specie politica intermedia tra le due.

26È possibile, infine, domandarsi: qual è il rapporto tra democrazia, demagogia e tirannide? Ovvero, qual è la natura della demagogia? Qual è il limite superato il quale un regime non si può più considerare democratico, ma non ancora tirannico? È davvero necessaria, inoltre, la mutazione del demagogo in tiranno? La metabole da un modo di governare demagogico a un regime tirannico è contingente? La demagogia è l’ultima forma di democrazia, la prima di tirannide, oppure ha connotati tali da consentire di non identificarla né con la democrazia né con la tirannide?

  • 51 Per approfondire l’opera polibiana cfr. Fraccari, Passerini, 1942.
  • 52 Cfr. Plb., VI, II, 9 [10].
  • 53 Cfr. Plb., VI, II 4-9. La maggiore innovazione di Polibio consiste, appunto, nel dare una connotaz (...)
  • 54 Cfr. Plb., VI, II, 9 [4].
  • 55 Plb., VI, II, 9 [7]. Celebre l’occorrenza nelle Opere e i giorni di Esiodo: «di Dike c’è il pianto (...)

27Anche in Polibio lo scenario demagogico caratterizza l’ultima fase della degenerazione interna alla democrazia51. Scopo dichiarato del suo studio è la comprensione delle cause degli accadimenti politici, da cui trarre indicazioni per la correzione dei regimi esistenti e per l’istituzione di nuove collettività: conoscendo la ratio, la causa interna dei mutamenti degenerativi politici, si può tentare di governare la fatale corruzione delle forme di governo. La vita di ciascuna di esse si sviluppa lungo una traiettoria a parabola: ogni politeia nasce e si evolve sino a raggiungere il proprio culmine; dopo il periodo di massimo fulgore segue il corso discendente della parabola, che conduce la forma di governo verso una metabole; mutando, il regime si avvicina al suo telos —la sua (ma anche il suo) fine— e cede il passo alla genesi di una nuova costituzione. Le politeiai si succedono l’una all’altra in una rotazione che tende a ripetersi indefinitamente, ritornando a percorrere sempre le stesse fasi52. In questa anakyklosis, a differenza della maggior parte degli autori antichi, con il termine demokratia Polibio intende un sistema politico approvabile in quanto moderato; la massa non è padrona di fare tutto quello che desidera ma è «frenata» dal rispetto del diritto consuetudinario53. Nella tipologia delle forme di governo delle Storie, la democrazia è una specie politica con poteri limitati, in cui vige la regola di maggioranza e quella dell’isotes: sono tenute in massima considerazione isegoria e parrhesia54. Con il suo esaurirsi l’oligarchia cede il passo alla democrazia ma, nel giro di due generazioni dalla sua instaurazione, si perde ogni memoria storica, i cittadini si abituano all’eguaglianza e alla libertà dandole per scontate, in quanto esse si trovano come prodotti quasi «naturali» della convivenza. Si verifica una sorta di assuefazione all’isegoria e alla parrhesia, che non sono più riconosciute come princìpi guida. Dunque, in democrazia si vengono a creare così le condizioni per la sete di potere politico: alcuni facoltosi iniziano ad ambire a cariche di potere senza riuscire a ottenerle grazie a virtù proprie. Trascinati da tale propria passione, questi ricchi megalomani, sfrontati e alla ricerca di notorietà, iniziano a dissipare il proprio patrimonio per adescare il plethos, che diviene venale e dorophagos55. In questo contesto si genera la demagogia. Polibio suggerisce il paragone della massa popolare con un pesce, attirato da un’esca che costituirà la sua rovina. I membri della «classe dirigente» tentano, in maniera più o meno lecita, di «accaparrarsi» visibilità e approfittare del periodo di prosperità economica, ma ogni loro impresa è contestata dall’opinione pubblica che, ormai resa venale dai demagoghi, li condanna come corrotti. Una volta abbindolata la moltitudine, quando dilaga l’hybris nella forma della paranomia, la democrazia è destinata a dissolversi in oclocrazia. Animoso e come accecato, eccitato dai demagoghi che, affamati di potere, lo incitano a sollevarsi contro le ingiustizie perpetrate dalla «casta», il demos non si sente più sottoposto ad alcuna autorità e pretende d’impadronirsi del potere in forma esclusiva. Raggiunto il suo telos, anche l’oclocrazia viene travolta dall’andamento cosmico, volgendosi nuovamente al principio del governo di uno: smarriti i princìpi di bene e giustizia, infatti, la società rientra in un assetto «animalesco» e la ferinità dilagante induce il bisogno di un nuovo despotes, che trova un parziale corrispondenza nel prostates tou demou dell’ottavo libro della Repubblica.

6. Una tirannia del demos?

  • 56 Vegetti, 2013: 20.
  • 57 Pl., R., 493b.
  • 58 «Eterogeneo», Pl., R., 493d.
  • 59 Nel capitolo della sua Psicologia delle folle dedicato ai «facteurs immédiats des opinions des fou (...)
  • 60 Pl., R., 493a.
  • 61 Lo stesso termine può significare anche «decisione», «giudizio», «ordinanza», «decreto pubblico»: (...)

28Vegetti sottolinea come —in Platone, ma è un’osservazione generalizzabile— «la demagogia risulta uno strumento di asservimento a doppia uscita, perché essa espone le masse alle lusinghe dei demagoghi che ne sollecitano gli istinti peggiori, e obbliga i demagoghi stessi a subire la pressione di questi istinti»56. Sono davvero le pulsioni e le inclinazioni delle folle a orientare il comportamento del demagogo? Oppure sono i demagoghi a manovrare la masse vocianti e scalpitanti? Questa dinamica che si sviluppa fra il demagogo e le masse si può sintetizzare nel seguente interrogativo, non suscettibile di risposta univoca: chi conduce e chi è condotto? Platone illustra come, nei regimi democratici, l’ingenua emotività popolare s’incontri facilmente con la volontà dei capi politici di condurre, trascinare le folle. È una situazione che causa una sorta di precario equilibrio dinamico tra quel che la massa si aspetta e ciò che il demagogo si mostra disposto a concedere. In questa dialettica ambigua, si richiamano dinamicamente l’una con l’altra due dimensioni della demagogia: la rhesis, che gioca sui pregiudizi sedimentati e sulle promesse, e la soddisfazione concreta delle pulsioni della cittadinanza. Nelsesto libro della Repubblica, i sofisti sono descritti come allevatori, quasi come domatori, che sanno come gestire il loro vigoroso animale; senza necessità di cambiarne la natura ma piuttosto «rimodellandola». Essi hanno ammaestrato la bestia avendo appreso, attraverso tentativi, prove ed errori, non solo come interpretarne gli impulsi, ma anche quali sono le phonai57 e i piaceri che le sono graditi: osservando l’animale, i sofisti ne interpretano gli umori e addomesticano la bestia allettandola. Socrate esplicita il paragone: l’energico animale è il volgo pantodapos58, e si può intuire che le phonai che calmano la bestia rappresentino i discorsi demagogici. Phone vale, infatti, come «suono» ma anche come «voce» e «parola». Nei confronti della belva, le phonai sono i suoni, suadenti oppure eccitanti; fuor di metafora diventano i discorsi del demagogo, che sono «suoni» in quanto è il modo di esprimersi, piuttosto che il contenuto o il ragionamento, ad essere incisivo59. In questo brano i sofisti sono descritti, dunque, come persuasivi al punto tale da riuscire a plasmare le credenze, quindi le decisioni, delle moltitudini. Socrate asserisce che i sophistai istruirebbero la folla sulle convinzioni che essa stessa manifesterà come propria, vociando, nelle riunioni politiche: «null’altro insegnano se non precisamente le opinioni (dogmata) della folla stessa, che vengono espresse quando si riunisce in massa»60. I dogmata sono le credenze, ciò che è decretato come vero, senza necessariamente esserlo61. Nuovamente, Platone rileva con enfasi il potere concreto che i sofisti, e chi ha appreso da loro a pagamento l’arte della comunicazione politica, esercitano in seno agli organi più importanti del regime democratico ateniese. Una simile riflessione aveva, in qualche modo, interessato anche altri esponenti della comunità intellettuale ateniese, ad esempio l’Aristofane delle Nuvole. Platone riflette esplicitamente sulle deviazioni connaturate alla democrazia che possono renderla simile a una tirannia del demos. Nelle sue opere, il filosofo descrive le adunanze politiche come rumorose e «travolgenti» e il demos come una bestia selvatica oppure un fiume in piena.

  • 62 Nella tipologia assiologica della Politica, per ammissione di Aristotele stesso, «[l]a democrazia (...)

29Nel quarto libro della Politica, anche Aristotele affronta esplicitamente il tema della degenerazione demagogica della democrazia, ossia di una forma di corruzione alla quale concorrono sia fattori antropologici sia fattori istituzionali. Per Platone la demokratia è un regime irrimediabilmente deviato; Aristotele non sembra, invece, esprimere un giudizio assolutamente negativo su questa forma di governo. Una democrazia che si mantenga entro i limiti delle leggi non è riprovevole62, come lo è, invece, la «democrazia dei demagoghi», che esautorano il potere delle leggi per rendere sovrano il demos:

  • 63 Arist. Pol., 1292a.

Sovrana è la massa, non la legge. Questo avviene quando sono sovrane le decisioni dell’assemblea (psephismata) e non la legge (nomos): e ciò accade per opera dei demagoghi. In realtà, negli stati democratici conformi alla legge non sorge il demagogo ma i cittadini migliori hanno una posizione preminente. Invece dove le leggi non sono sovrane, ivi appaiono i demagoghi perché allora diventa sovrano il popolo la cui unità è composta di molti, e i molti sono sovrani non come singoli, ma nella loro totalità63.

  • 64 Questa pagina di Aristotele è da confrontare con un passaggio in cui Montesquieu delinea il «dispo (...)

30Senza che sia necessario forzare il testo, in questo brano si trova il concetto di tirannia del demos64. Il fatto che la cittadinanza eserciti la kyrie arche come un insieme indistinto, una massa omogenea, è un primo connotato che caratterizza questa forma di democrazia. La seconda caratteristica della democrazia dei demagoghi consiste nel fatto che le leggi della città smettono di essere sovrane, e vengono soverchiate dalla volontà dell’assemblea che decide per mezzo di psephismata, irretita dai demagoghi. Aristotele prosegue paragonando la degenerazione demagogica alla tirannide:

  • 65 Arist., Pol., 1292a-b.

Un popolo di tal sorta, in quanto signore assoluto, cerca di esercitare la signoria perché non è governato dalla legge, e diventa dispotico, sicché sono tenuti in onore gli adulatori; una democrazia di tal fatta corrisponde in proporzione alla tirannide [...] entrambe esercitano il potere dispotico sui migliori, e le decisioni dell’assemblea (psephismata) rappresentano quel che là è l’editto del tiranno, e il demagogo e l’adulatore sono gli stessi o qualcosa di analogo. Soprattutto, poi, sono entrambi una potenza in entrambe le forme di governo, gli adulatori presso i tiranni, i demagoghi presso le democrazie di tal sorta. Ad essi risale la responsabilità che siano sovrane le decisioni dell’assemblea e non le leggi; giacché tutto riportano al popolo: avviene quindi che essi diventino grandi perché il popolo è sovrano di tutto, e del sentimento del popolo, loro: e, infatti, la massa crede in loro65.

  • 66 Montesquieu, 1989: 267; Hobbes,1985: 179-180.

31Ragionando sulle condizioni sociali e istituzionali che agevolano la tirannia del demos, lo stagirita descrive una sorta di circolo vizioso, una situazione nella quale non è chiaro chi detenga il potere: formalmente la sovranità appartiene al popolo ma, nei fatti, esso è manovrato dai demagoghi. L’immagine delineata da Aristotele oscilla tra la forma di un montesquieuviano «dispotismo di tutti» e quella di un’hobbesiana «aristocrazia di oratori»66.

7. Un regime demagogico?

32Come immagina Platone nell’ottavo libro della Repubblica, è possibile che il momento demagogico diventi un passaggio funzionale a trasformare la democrazia in un regime autocratico; Aristotele isola, invece, la demagogia come la fase deviata della vita forma di governo democratica.

  • 67 Th., II, 65. 9.
  • 68 Hobbes,1985: 179-180.

33A partire da questi brani, sembra profilarsi la possibilità teorica d’isolare —e contrassegnare in modo pertinente e appropriato come demagogia— un tipo di governo distinto, e a suo modo potenzialmente autonomo, rispetto alle altre forme di regime. In nuce, si presenta appunto come una vera e propria «forma», cioè una configurazione peculiare del rapporto politico, diverso tanto da quello democratico quanto da quello tirannico: quella forma di governo in cui un ami du peuple acquisisceil potere supremo grazie al sostegno della massa. É forse possibile tentare di costruire una nozione di forma governo propriamente demagogica contaminando il lessico tucidideo con quello hobbesiano. Tucidide scrive che al tempo di Pericle «nominalmente, vigeva la democrazia: ma nella realtà della pratica politica, l’arche era salda nel pugno del protos aner»67. Viene alla mente, per analogia, il modo in cui Hobbes caratterizza una delle possibili incarnazioni del regime democratico: lo delinea in una maniera realistica, che ricorda la sintesi periclea, come una «temporanea monarchia di un solo oratore»68. Il retore eminente non è semplicemente chi riscuote più successo degli altri nell’assemblea democratica, ma è colui che diventa il protosaner, ovvero chi arriva acontrollare, di fatto, il potere supremo. Ci si trova di fronte a una «monarchia di un solo oratore», immagine semplificata e icastica di una nuova forma di governo, un nuovo modo di esercitare il potere politico, caratterizzato uno spostamento dell’equilibrio del potere stesso a favore del demagogo. Si tratta di un sistema in cui l’assemblea democratica non è smantellata, sussiste ma priva di rilevanza, a causa di uno sbilanciamento del potere supremo a favore del protosaner. Si può individuare nella strategia demagogica un insieme di tecniche che, su base democratica, possono consentire al retore di carpire il governo circuendo il popolo sovrano e «truccando» il modo in cui «giocano» le regole democratiche. Lo sbilanciamento del potere si verifica, infatti, grazie alla manipolazione demagogica, attraverso cui gli oratori possono spingere il demos all’approvazione di provvedimenti che stravolgono le regole democratiche, inducendo una mutazione nella taxis ton archon.

34È cruciale domandarsi, però, se sia possibile riorganizzare la politeia anche rebus sic stantibus, facendo funzionare, tuttavia, le regole in modo differente. Oppure è necessario un cambiamento formale delle procedure democratiche perché si possa parlare dell’avvento di una diversa forma di governo? La monarchia di un solo oratore coincide con una democrazia apparente, svuotata dall’interno? Esasperato e insieme snaturato il principio del consenso dei governati, incanalata la volontà popolare verso l’investitura di un potere monocratico, svuotato ed esautorato il momento assembleare, date le sue caratteristiche, il regime demagogico non è più riconoscibile come una democrazia, e non è detto che divenga tirannide: il «novello principe» potrebbe non aver bisogno di attuare colpi di stato. Potrebbe, anzi, ritenerlo addirittura svantaggioso se è già riuscito a trovare un metodo per la propria investitura personale attraverso la modifica delle regole di rango costituzionale in modo legale, oppure trasformando le procedure democratiche a costituzione invariata. La demagogia è, infatti, pensabile come eidos là dove si può ipotizzare che l’esito tirannico previsto da Platone non sia necessario: se si assume il regime demagogico come una forma di governo, seppur precaria, allora la tirannia non è l’esito fatale della degenerazione demagogica della democrazia. Questa metabole è possibile ma non necessaria: se, grazie alla sua abilità, riesce a stravolgere le regole a proprio vantaggio e perseguire i suoi scopi personali, non è scontato che il demagogo aspiri a sovvertire la democrazia, anzi potrebbe ritenerlo svantaggioso e, invece, reputare giovevole per i suoi scopi ammantarsi dell’apparenza di un capo democratico. Si riconosce, invece, che l’esito è la tyrannis quando viene a mancare la ricerca del consenso, e il cambiamento delle procedure politiche è sfacciatamente imposto. Si tratta di uno dei possibili snaturamenti della democrazia, accanto a quelli descritti nella Politica, un’alterazione estrema in cui un demagogo emerge tra molti riuscendo a istituzionalizzare la propria posizione di prostates.

  • 69 Nelle lingue neolatine sympheron è una nozione espressa con i lemmi nati dalla radice del verbo ut (...)
  • 70 Hobbes, 1985: 180.
  • 71 Corsivo mio. Th., II, 65. 4-5.
  • 72 Arist., Ath., 34.
  • 73 Canfora, 2012: 367.
  • 74 X., HG, I, 7, 8.
  • 75 X., HG, I, 7, 34.
  • 76 Pl., Ap., 32b.

35Quanto alla forma di governo propriamente demagogica è un eidos storico ricorrente, sia pure con diverse varianti, positive e negative (benché, ovviamente, appare superfluo sottolineare che nella realtà storica non esista un confine netto tra le due). Naturalmente si possono esprimere le più diverse valutazioni assiologiche sulle differenti varianti storiche di monarchie di un solo oratore: seguendo lo schema classico che adopera il criterio aristotelico del sympheron69come discrimine è possibile, dunque, scindere questa forma di governo in due specie; si può immaginare la democrazia come un’hobbesiana «aristocrazia di oratori, interrotta talvolta dalla temporanea monarchia di un solo oratore»70, che s’invera in due estremi. Da una parte, sul versante positivo si avrà il comando del buon protos aner se il potere viene esercitato nella prospettiva dell’interesse generale: guardando all’Atene storica Tucidide ne assume come esempio paradigmatico Pericleper«l’equilibrio politico e la fermezza con cui seppe tutelare gli interessi dello stato» e perché nessuno «era dotato di abilità pari a quella di Pericle nell’elaborare le soluzioni più adatte al momento critico che la città, nel suo complesso, stava attraversando»71. Sul côté negativo, si avrà il regime demagogico qualora l’oratore tenti di snaturare le «regole del gioco» volendo servirsi del ruolo di governo per i propri, privati, interessi: un esempio nella storia d’Atene potrebbe essere il processo agli strateghi nel 406, in cui alcuni «sobillatori trassero in inganno il popolo»72. Questi strateghi conseguirono una vittoria navale presso le isole Arginuse, dopo la quale furono sorpresi da una tempesta tale da non rendere possibile recuperare i naufraghi. Gli strateghi furono accusati da Teramene —tra i veri responsabili del mancato recupero, in quanto trierarca73— in un processo svoltosi, in ragione della presunta eccezionale gravità della colpa di cui li si accusava di essere rei, di fronte all’assemblea. Decisi a cogliere l’occasione per sbarazzarsi mediante condanne a morte di alcuni avversari politici tra questi strateghi, «Teramene e i suoi sostenitori istruirono alcuni individui avvolti in neri mantelli [...] con l’intenzione di presentarli in ecclesia come parenti dei morti»74 per far leva sull’emotività popolare. Sobillata da questo e altri stratagemmi di Teramene, l’assemblea decise, infatti, di giudicare «collettivamente con un voto unico»75 e, come sottolinea Platone, «illegalmente, i dieci strateghi che non avevano raccolto i superstiti»76. Aizzata dal demagogo, la massa popolare reclamava la propria facoltà di stare al di sopra della legge, che prevedeva che gli imputati fossero giudicati individualmente. Invocando la propria sovranità, ma in realtà abilmente manipolato e pilotato, il demos emise un giudizio di condanna illegale, grazie al quale Teramene riuscì a perseguire i suoi obiettivi personali.

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Notes

1 Bobbio, 1999: 326. Sul governo democratico oggi universalmente accettato come la forma più desiderabile di organizzazione politica cfr. anche Ober, 1989: 3.

2 Bobbio, 1999: 380.

3 Cfr. Liddell, Scott e Jones, 1996.

4 Bobbio, 1995: 5-6.

5 Cfr. Isocr., 2. 16, 10. 37, 18, 215.

6 Cfr. Ar., Eq., v. 944. Sull’opera di Aristofane cfr. i sempre classici Ehrenberg, 1957 e Dover, 1972.

7 Personificato in Demo, il popolo protesta di non essere sprovveduto, bensì di comprendere ciò che è nel proprio interesse. L’analisi di Aristofane si avvicina, inoltre, agli argomenti dell’«oligarca intelligente» pseudo-senofonteo. Pur affermando di ritenere la democrazia deprecabile, l’autore ammette che gli Ateniesi conservano bene il loro sistema e che, anche se si occupano di politica solo in vista di un tornaconto personale, tutto sommato riescono a far funzionare bene la loro politeia, evitando che perda di vigore. In questo testo, appunto, la descrizione del popolo ateniese ricorda il Demo aristofaneo che finge sprovvedutezza ma in realtà sa come perseguire il proprio utile. Scrive l’anonimo: «[i]l “Popolo di Atene” sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla canaglia. Ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli ed utili, anche se sono canaglie» (corsivi miei, Ps.-X. Ath., II, 19).

8 Ar., Eq., vv. 191-193.

9 Connor, 1971: 144.

10 Lys., XXVII.

11 X., HG, II, 3. 27.

12 X., HG, II, 3. 25. Il lemma neutro demagogos spesso si carica dei significati negativi di altre espressioni alle quali è legato in endiadi: un esempio è nelle Vite parallele dove, narrando come sia Teseo sia Romolo si discostino da un uso retto del potere,Plutarco scrive: «[n]on conserva né l’autorità né il comando colui che ammorbidisce o irrigidisce il potere, ma divenuto o demagogo o despota, suscita nei sudditi odio e disprezzo» (Plu., Com Thes. Rom., 31 (2), 3. Tr. it. Traglia, 1992, parzialmente modificata).

13 Il primo significato di demegoria è «discorso in assemblea», così come nella Retorica di Aristotele. Cfr. Arist., Rh., 1354b28.

14 Nel Gorgia soprattutto (cfr. Pl., Grg., 482c, 482e, 494d, 502c, 519d, 520b) ma anche in altri luoghi (cfr. ad esempio Prt., 329a, 336b; R., 365d; Lg., 817c, 908d, eccetera).

15 Pl., Prt., 336b.

16 Pl., Lg., 908d. Sulle Leggi cfr. Il sempre classico Morrow, 1960.

17 Pl., Grg., 492a.

18 Pl., Grg., 513a.

19 Pl., Grg., 489d.

20 Cfr. Th, III, 37-40.

21 Su Tucidide cfr. il recentissimo Canfora, 2016.

22 Pl., Grg., 481d. Espressioni di questo tipo erano comuni nel linguaggio corrente: nel quinto secolo la terminologia della fedeltà inizia a essere impiegata non solo per i rapporti interpersonali ma anche nei confronti della cittadinanza. Nascono termini come philodemos, «amico del popolo», oppure philopolis; «amico della città». S’incontrano espressioni come eunous to demo, «ben disposto nei confronti del popolo», epitropos tou demou, «protettore del popolo»,e perfino erastes, «amante», del popolo, o della città (a titolo di esempi cfr. Th., II, 43; Ar., Eq., vv. 1340-1343). Durante il corso della storia, la categoria dell’ami du peuple torna ripetutamente nei discorsi politici, diventando un modello transepocale. Tecnica speculare e opposta consiste nell’additare gli avversari come «nemici del popolo»; anch’esso è un topos ricorrente. Un esempio nella Grecia classica è il libello Accusa di Socrate il cui autore, Policrate, attribuisce proprio al filosofo, appunto, la colpa di essere misodemos.

23 Pl., Grg., 481d-e.

24 Pl., Grg., 519a.

25 Pl., Grg., 521b.

26 In merito cfr. Canfora, 2014.

27 Ar., Eq., vv. 351-352.

28 Si vanta di aver acquistato tutte le spezie per le acciughe disponibili sul mercato, per poi ridistribuirle ai cittadini riuniti nella Boule. Questo espediente è funzionale a ingraziarsi chi —avendo acquistato acciughe, che il demagogo aveva fatto credere fossero a buon mercato— era rimasto sprovvisto di aromi per il pesce, spezie di cui Agoracrito aveva fatto man bassa prima di presentarsi alla riunione del consiglio: «Ruppi la porta della cancellata e mi misi ad urlare a squarciagola: “Membri della Bulé. Porto buone notizie; voglio annunziarle a voi per primi: da quando è scoppiata la guerra non ho mai visto alici ad un prezzo più conveniente”. E subito i loro volti si rasserenarono: volevano darmi una corona per la buona notizia. Ed io li consigliai, in gran segreto, di confiscare i vasi ai fabbricanti: così avrebbero potuto comprare, per un obolo, una grande quantità di alici. Quelli scoppiarono in un applauso: mi guardavano a bocca aperta. [...] Comprai tutto il coriandolo e le cipolle che c’erano al mercato; e poi li ho distribuiti gratis a loro, che ne erano sprovvisti: perché condissero le alici. Così sono entrato nelle loro grazie. Tutti si lasciavano andare a lodi straordinarie nei miei confronti, a grida di approvazione: e così, con un obolo di coriandolo, mi sono conquistato tutta la Bulé. Ed ora, eccomi qua» (Ar., Eq., vv. 640-679).

29 Ar., Eq., vv. 40-43.

30 Cfr. Ar., Eq., vv. 730-969.

31 Ar., V., vv. 663-717.

32 Cfr. infra § 6.

33 Ar., Eq., vv. 940-950.

34 Per approfondire la nozione d’isonomia cfr. Bovero, 2000: 7-25 e Hansen, 2003: 126 e seguenti.

35 Ps.-X., Ath., I, 1.

36 Su isegoria e parrhesia cfr. Foucault, 2005 e Spina, 1986.

37 Pl. R., 557b.

38 Pl. R., 563b.

39 Pl. R., 560e-561a.

40 Corsivo mio. Pl. R., 562d.

41 Pl., R., 561e.

42 L’epithymetikon è la componente, pulsionale e più grande dell’anima (cfr. Pl., R., 442a), «con cui ama [l’anima], prova fame e sete e si eccita per gli altri desideri» (439d). Di conio platonico, il termine deriva da epithymia, «desiderio», «brama» (cfr. Chantraine, 1968 e Liddell, Scott, Jones, 1996).

Il carattere dei desideri «epithymetici» è anti-razionale, per lo più corporeo. Nell’epithymetikon,dunque,nascono pulsioni diverse e talvolta contrastanti, quindi in conflitto, tra loro. Sono desideri di carattere individuale, la cui soddisfazione tende a disgregare l’ordito dei rapporti sociali.

43 Pl., R., 561d.

44 Pl., R., 561a.

45 Pl., Lg., 659b.

46 Pl., Lg., 659b-c.

47 Pl., Lg., 701a.

48 Pl., Lg., 701a.

49 Hegemon deriva dal verbo hegeomai che significa «camminare davanti», «essere in testa» e si traduce con «capo», «guida», ma anche «comandante». Da hegemon deriva a sua volta il verbo hegemoneo, «avere autorità su»: l’hegemon è dunque un capo naturale, che ha un’autorevolezza tale da riuscire a farsi seguire senza costringere. In Plutarco (ad esempio cfr. Plu., Cic., 2) traduce il latino princeps. Cfr. Chantraine, 1968 e Liddell, Scott e Jones, 1996.

50 Pl., R., 566d-e.

51 Per approfondire l’opera polibiana cfr. Fraccari, Passerini, 1942.

52 Cfr. Plb., VI, II, 9 [10].

53 Cfr. Plb., VI, II 4-9. La maggiore innovazione di Polibio consiste, appunto, nel dare una connotazione positiva a un termine cui —prevalentemente, fino a quel momento— ne era associata una negativa. Come Otane nel logos tripolitikos dichiara che isonomia è il nome migliore per una forma di governo (cfr. Hdt., III, 80), così anche Polibio afferma, addirittura, che demokratia è il più bello dei nomi per una costituzione.

54 Cfr. Plb., VI, II, 9 [4].

55 Plb., VI, II, 9 [7]. Celebre l’occorrenza nelle Opere e i giorni di Esiodo: «di Dike c’è il pianto, trascinata dagli uomini mangiatori di doni (dorophagoi), che con tòrte sentenze amministrano la giustizia» (Hes., Op., vv. 220-221).

56 Vegetti, 2013: 20.

57 Pl., R., 493b.

58 «Eterogeneo», Pl., R., 493d.

59 Nel capitolo della sua Psicologia delle folle dedicato ai «facteurs immédiats des opinions des foules», Le Bon sembra richiamare Platone sostenendo che si possono eccitare e placare le moltitudini a proprio piacimento con parole e con formule dal giusto potere evocativo. Appare significativa anche la somiglianza di lessico tra i due autori: là dove Platone fa riferimento a doxa e dogmata, allo stesso modo Le Bon scrive di credenze, opinioni e dogmi. Cfr. Le Bon, 1895: livre II, chapitre II, § 1.

60 Pl., R., 493a.

61 Lo stesso termine può significare anche «decisione», «giudizio», «ordinanza», «decreto pubblico»: nel plasmare l’opinione pubblica, dunque, il sofista determina concretamente quali saranno le deliberazioni degli organi politici.

62 Nella tipologia assiologica della Politica, per ammissione di Aristotele stesso, «[l]a democrazia è la forma meno degenerata, dato che questo tipo di costituzione rappresenta una deviazione piccola» (Arist., EN, 1160b).

63 Arist. Pol., 1292a.

Nel quarto secolo i termini nomos e psephisma sono usati prevalentemente per distinguere due tipi di norme differenti: il nomos è unalegge con portata generale e astratta e lo psephisma è una norma particolare. Cfr. Arist., EN, 1137b11-29; Pl., Def., 415b; Hansen, 2001: 14; 2003: 241-242.

Dopo la disfatta della guerra del Peloponneso e il crollo dell’oligarchia dei Trenta tiranni, nel 403 in Atene viene ristabilita la democrazia. La forma di governo che segue questa restaurazione è per lo più rappresentata come un tipo di democrazia «moderata», mirata a evitare che i demagoghi raggirassero il demos. Per quanto riguarda le decisioni di politica interna viene riaffermato il primato dei nomoi, il potere di approvare i quali viene trasferito a un collegio di nomothetai; l’assemblea mantiene, invece, il diritto approvare gli psephismata, la cui discussione è l’attività che occupa la maggior parte del tempo dei lavori dell’ekklesia. I poteri dell’assemblea furono limitati per il timore che gli oratori potessero persuadere nuovamente l’ekklesia a prendere risoluzioni «suicide» per il regime stesso.

64 Questa pagina di Aristotele è da confrontare con un passaggio in cui Montesquieu delinea il «dispotismo di tutti», una degenerazione democratica. Nel libro dello Spirito delle leggi dedicato alla Corruzione dei princìpi dei tre governi, Montesquieu scrive: «le democrazie vanno in rovina quando il popolo spoglia delle loro funzioni [...] i magistrati, così [...] si va al dispotismo di tutti» (Montesquieu, 1989: 267).

65 Arist., Pol., 1292a-b.

66 Montesquieu, 1989: 267; Hobbes,1985: 179-180.

67 Th., II, 65. 9.

68 Hobbes,1985: 179-180.

69 Nelle lingue neolatine sympheron è una nozione espressa con i lemmi nati dalla radice del verbo utor («usare», «adoperare»), da cui l’italiano «utile», «utilità». In greco, invece, l’idea si esprime attraverso il verbo symphero, composto da sym-, «con», e phero, «portare». Il sympheron è dunque qualcosa che è utile da adoperare rispetto a uno scopo ulteriore: si suggerisce pertanto la traduzione a calco di sym-phero con «con-venire», il sympheron è ciò che conviene fare, ciò che è conveniente (cfr. Chantraine, 1968 e Liddell, Scott e Jones, 1996).

Per distinguere il governo del buon protos aner da quello demagogico, usare come criterio l’esercizio del potere in vista dell’interesse comune è problematico, perché non è una questione semplice determinare quale sia il bonum commune. Esso potrebbe, infatti, presentare una debolezza perché non è un criterio oggettivo: l’intenzione stessa del protos aner potrebbe essere valutata nella maniera più varia, a seconda dei criteri di chi giudica. Come si fa a sapere qual è il soggetto nell’interesse del quale è esercitato il potere? Chi può determinare quale sia l’interesse generale? Prendendo distanza dall’idea platonica di basiliketechne, è sempre possibile individuare sympheron? Questa criticità vale mostrare, ancora una volta, quanto, nella realtà empirica, sia labile il confine tra le due forme di monarchia di un solo oratore, distinguibili dal punto di vista teorico-analitico. Considerando la politica come una scienza esatta, e ritenendo che il buon governante non possa fare a meno di riconoscerne le leggi e perseguirle, anche Platone adotta questo criterio.

70 Hobbes, 1985: 180.

71 Corsivo mio. Th., II, 65. 4-5.

72 Arist., Ath., 34.

73 Canfora, 2012: 367.

74 X., HG, I, 7, 8.

75 X., HG, I, 7, 34.

76 Pl., Ap., 32b.

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Pour citer cet article

Référence papier

Lucilla Guendalina Moliterno, « Quale demagogia? Riflessioni a partire da Platone », Teoria politica. Nuova serie Annali, 6 | 2016, 361-381.

Référence électronique

Lucilla Guendalina Moliterno, « Quale demagogia? Riflessioni a partire da Platone », Teoria politica. Nuova serie Annali [En ligne], 6 | 2016, mis en ligne le 26 mai 2020, consulté le 09 novembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/tp/712

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Cosa pensava Aristotele a proposito della democrazia?

In uno Stato ciascuno deve svolgere le proprie funzioni in vista del bene comune, e questo costituisce la sua virtù. È dunque necessario concludere che nello Stato i cittadini sono differenti gli uni dagli altri, ma tutti sono accomunati dalla medesima virtù.

Quali sono i principi su cui si basa la democrazia?

Il suffragio universale, il primato della costituzione e la separazione dei poteri sono le basi della democrazia rappresentativa. Un'importante caratteristica della democrazia moderna è la separazione tra Stato e Chiesa, cioè l'indipendenza da tutte le religioni.

Qual è la degenerazione della democrazia?

La degenerazione e l'evoluzione L'anaciclosi afferma che tre forme fondamentali di governo "benigno" (monarchia, aristocrazia e democrazia) sono intrinsecamente deboli e instabili, di solito tendono a degenerare rapidamente nelle tre forme fondamentali di governo "maligno" (tirannide, oligarchia e oclocrazia).

Quando nasce l'idea di democrazia?

Democrazia classica IV secolo a.C. Prima che la parola "democrazia" diventasse di uso corrente, gli antichi greci utilizzavano due termini per indicare la condizione di parità necessaria a un buon governo: isogoria (uguale diritto di prendere la parola durante l'assemblea) e isonomia (uguaglianza di fronte alla legge).